…eravamo oltre cinque anni fa. Questo l’ho detto.
Allora di teatro non sapevo nulla. Nel senso che appena passati i vent’anni avevo fatto parte di una compagnia teatrale nel comune nel quale sono cresciuto: esperienza di pochi mesi, servita solo alla messa in scena di uno spettacolo intitolato Le dimensioni dell’odio. Una rappresentazione acerba e slabbrata formata da piccoli sketch uniti gli uni agli altri da un sottile filo da sartina.
Ora invece ero in un teatro vero. Di quelli nati negli anni ’60, quando le avanguardie proponevano di vivere in strada il mestiere dell’attore. Un teatro in cui si masticavano quotidianamente gli insegnamenti di Stanislavskji riportati nel Metodo insegnato da Strasberg all’Actors Studio.
Era un livello superiore di Teatro. Era l’idea che l’attore non recita, anzi, lo spazio fisico dello stage, della scena, dà la possibilità di non fingere ed essere finalmente se stessi. Il personaggio che viene interpretato non è qualcuno in cui immedesimarsi, ma una gabbia all’interno della quale l’attore può finalmente esprimere ciò che ha di più nascosto.
Un concetto che si traduceva in un’intensità a cui assistevo settimanalmente (*).
Non resistetti a lungo e dopo poche settimane chiesi il permesso di poter fotografare le lezioni. Detto così sembra tanto semplice, in realtà non lo fu affatto.
Il palco era visto come un luogo sacro di cui avere il massimo rispetto. Il silenzio era d’obbligo durante le prove, come nelle chiese durante una funzione. La mia richiesta avrebbe potuto apparire (e apparve) agli altri studenti come il tentativo di invadere la scena con l’ingombrante presenza di una macchina fotografica.
Per dirla tutta mi rivolsi direttamente all’unica persona che quell’autorizzazione avrebbe potuto darmela: Lui, l’insegnante del corso di tecnica dell’attore, l’insegnante di Scrittura Creativa nonché il direttore della scuola. La Sua parola era legge e grazie a questo, lo sconcerto iniziale ai miei primi click venne presto dimenticato quando Lui annui nella mia direzione.
C’è da dire che avevo delle limitazioni tecniche non indifferenti. Niente flash ovviamente. E poi usavo una reflex Zenith degli anni ’70 completamente manuale con un teleobiettivo 200mm. Inoltre, per questioni di luce, ero obbligato a utilizzare film ultra-sensibili. Pellicole B/N da 1600 ASA che facevo recuperare in sottoesposizione di due o tre stop in fase di sviluppo.
Ora fare fotografie in teatro, oltre a esaltare il mio ego, oltre a fornirmi materiale artistico di prima qualità, poneva la mia figura su un livello altro. Non ero uno degli studenti, ma, quasi avessi un lasciapassare per l’eternità, ero autorizzato a mettere bocca in altre questioni purché avessero a che fare, non già con la tecnica fotografica, quanto con tutto ciò che rientrava nello spazio del mio obiettivo. Ero stato in un certo senso accettato da quel ristretto gruppo sociale che era la scuola. Questo mi permise di conoscere bene gli spazi del teatro e i suoi componenti.
Venni inoltre cooptato per assistere a tutte le attività extra-teatrali per testimoniarne la genesi e lo svolgimento.
Fu un’altra emozione grande per me, perché per il breve attimo di un paio d’anni vissi forse alcuni degli incontri più intensi ai quali l’informe città nella quale vivevo mi aveva dato la possibilità di partecipare…
continua…
(*)
Devo confessare di aver imparato a scrivere più seguendo le lezioni di tecnica dell’attore che non durante i corsi di Creative Writing. Sì perché il concetto di personaggio è probabilmente è ostico da digerire per chi non sia cresciuto leggendo Dostoevskji, mentre in teatro, il lavoro dell’attore…
Beh, io ero tra quelli, ma questo è divagare…