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  1. Fotografia, teatro e danza – 3 –

    Febbraio 19, 2007 by Admin

    …e poi, avvenne così, senza premeditazione. Mi innamorai anche della danza.
    Ora, il teatro è un’arte narrativa. Anche senza il suo volere, anche quando entra nei suoi microcosmi introspettivi il teatro racconta la vita. La danza no, non racconta. Essa è forma, è movimento, è ritmo, è luce. Anche essa è vita. E’ una vita non narrata ma vissuta.
    Accadde che durante una delle attività extra-teatrali della scuola finì nel mio obiettivo una danzatrice. FotinaRicordo ancora lo spazio del bar, le tavolate, le panche, la luce calda delle candele, gli studenti riuniti in gruppetti a sorseggiare una birra e a chiacchierare. E poi qualcuno sul palchetto a leggere poesie o a suonare una chitarra. In quell’atmosfera era naturale che ogni fine settimana si organizzassero serate aperte in cui le varie arti si contaminavano l’un l’altra.
    Un sabato capitò sul palco un attore che proponeva alcuni passi tratti da Il Castello di Kafka. Li leggeva con voce calda e con la giusta enfasi. Senza eccessi di ritmo, ma con un tono profondo che dava il peso delle parole. Era accompagnato da una musica jazz; un basso in sottofondo rispondeva a ritmo alle sue battute e, ad ogni sua pausa, ad ogni virgola, il basso reclamava che no, non aveva il diritto di fermarsi, e l’attore allora riprendeva a leggere.
    Io ero seduto in un angolo, come al solito cercavo di essere il più invisibile possibile. Ero pronto a scattare, a immobilizzare in un’immagine fotogrammi di vissuto. L’attore raccontava i tormenti di quel personaggio K che altri non era se non l’ingabbiato alter-ego di Kafka. Poi a un tratto, alla fine di una frase, di un capoverso, la musica aveva invaso il territorio delle parole e la voce dell’attore era calata di tono, era sfumata di peso. Piano piano era sfuggita alla soglia dell’udibile. Lui sul palco mimava le parole che avrebbe pronunciato, ma la sua voce con un raggio di luce si era spostata altrove, si era trasformata in qualcosa d’altro. FotinaLo schermo luminoso di un faretto era cresciuto di intensità e mentre il buio calava sull’attore, l’immagine di un corpo prendeva movimento. Era il movimento di una danzatrice.
    Era un corpo flessuso, una ragazza con i capelli lunghi raccolti in una coda, un paio di pantaloni di lino e una canottiera di seta nera. Si muoveva sul posto al ritmo del basso o, meglio, in risposta ad esso. Era la voce dell’attore che continuava a leggere, ma le parole erano divenute movimento, e i gesti che le sostituivano erano altrettanto caldi, altrettanto profondi.
    Non so cosa accadde in me, ma cominciai a scattare, e a scattare, e a scattare e a dannarmi l’anima quando ad un certo punto, quasi subito, dopo neanche dieci scatti, il rullino finì…

    continua…


  2. Fotografia, teatro e danza – 2 –

    Gennaio 31, 2007 by Admin

    …eravamo oltre cinque anni fa. Questo l’ho detto.
    Allora di teatro non sapevo nulla. Nel senso che appena passati i vent’anni avevo fatto parte di una compagnia teatrale nel comune nel quale sono cresciuto: esperienza di pochi mesi, servita solo alla messa in scena di uno spettacolo intitolato Le dimensioni dell’odio. Una rappresentazione acerba e slabbrata formata da piccoli sketch uniti gli uni agli altri da un sottile filo da sartina.
    FotinaOra invece ero in un teatro vero. Di quelli nati negli anni ’60, quando le avanguardie proponevano di vivere in strada il mestiere dell’attore. Un teatro in cui si masticavano quotidianamente gli insegnamenti di Stanislavskji riportati nel Metodo insegnato da Strasberg all’Actors Studio.
    Era un livello superiore di Teatro. Era l’idea che l’attore non recita, anzi, lo spazio fisico dello stage, della scena, dà la possibilità di non fingere ed essere finalmente se stessi. Il personaggio che viene interpretato non è qualcuno in cui immedesimarsi, ma una gabbia all’interno della quale l’attore può finalmente esprimere ciò che ha di più nascosto.
    Un concetto che si traduceva in un’intensità a cui assistevo settimanalmente (*).
    Non resistetti a lungo e dopo poche settimane chiesi il permesso di poter fotografare le lezioni. Detto così sembra tanto semplice, in realtà non lo fu affatto.
    FotinaIl palco era visto come un luogo sacro di cui avere il massimo rispetto. Il silenzio era d’obbligo durante le prove, come nelle chiese durante una funzione. La mia richiesta avrebbe potuto apparire (e apparve) agli altri studenti come il tentativo di invadere la scena con l’ingombrante presenza di una macchina fotografica.
    Per dirla tutta mi rivolsi direttamente all’unica persona che quell’autorizzazione avrebbe potuto darmela: Lui, l’insegnante del corso di tecnica dell’attore, l’insegnante di Scrittura Creativa nonché il direttore della scuola. La Sua parola era legge e grazie a questo, lo sconcerto iniziale ai miei primi click venne presto dimenticato quando Lui annui nella mia direzione.
    C’è da dire che avevo delle limitazioni tecniche non indifferenti. Niente flash ovviamente. E poi usavo una reflex Zenith degli anni ’70 completamente manuale con un teleobiettivo 200mm. Inoltre, per questioni di luce, ero obbligato a utilizzare film ultra-sensibili. Pellicole B/N da 1600 ASA che facevo recuperare in sottoesposizione di due o tre stop in fase di sviluppo.
    FotinaOra fare fotografie in teatro, oltre a esaltare il mio ego, oltre a fornirmi materiale artistico di prima qualità, poneva la mia figura su un livello altro. Non ero uno degli studenti, ma, quasi avessi un lasciapassare per l’eternità, ero autorizzato a mettere bocca in altre questioni purché avessero a che fare, non già con la tecnica fotografica, quanto con tutto ciò che rientrava nello spazio del mio obiettivo. Ero stato in un certo senso accettato da quel ristretto gruppo sociale che era la scuola. Questo mi permise di conoscere bene gli spazi del teatro e i suoi componenti.
    Venni inoltre cooptato per assistere a tutte le attività extra-teatrali per testimoniarne la genesi e lo svolgimento.
    Fu un’altra emozione grande per me, perché per il breve attimo di un paio d’anni vissi forse alcuni degli incontri più intensi ai quali l’informe città nella quale vivevo mi aveva dato la possibilità di partecipare…

    continua…

    (*)
    Devo confessare di aver imparato a scrivere più seguendo le lezioni di tecnica dell’attore che non durante i corsi di Creative Writing. Sì perché il concetto di personaggio è probabilmente è ostico da digerire per chi non sia cresciuto leggendo Dostoevskji, mentre in teatro, il lavoro dell’attore…
    Beh, io ero tra quelli, ma questo è divagare…


  3. Fotografia, teatro e danza – 1 –

    Gennaio 25, 2007 by Admin

    Ci sono momenti che non pensi, attimi su cui hai già messo la parola fine e che invece, quando meno te lo aspetti, rievocano immagini importanti e intense. FotinaSei lì che pensi al tuo lavoro, a una notizia da pubblicare, a un CSS da modificare e per caso il tuo sguardo si posa su una fotografia.
    E allora rievochi quello che è stato e quello che avrebbe potuto essere. E allora ripensi al teatro e alla tua reflex, alle immagini rubate durante una prova o a quelle, più intense, scattate durante un corso di danza.
    Inizio da capo perché rischio di lasciarmi andare a una vena romantica che da tempo credevo fosse estinta in me.

    Scrivevo e volevo scrivere ma più di ogni altra cosa volevo vivere di fotografia.
    Iniziai con il fare l’assistente a un fotografo di moda. Un personaggio decisamente interessante. 60 anni portati giovanilmente, l’aspetto progressista con le clark in terra di siena sotto il pantalone di lino, il maglione scuro con il collo alto, ed il capello piuttosto lungo, ma mai trasandato. Dopo circa sei mesi di batoste e pochi soldi in tasca decisi che no, non potevo continuare a “pagare” per poter lavorare. FotinaSì perché il nostro uomo, era illuminato nel viso e nello stile, aveva sì comportamenti al limite del nobiliare, ma in realtà era un conservatore della peggior specie, di quelli che pensano che se lavori per lui è solo perché può insegnarti qualcosa che nessun altro sa. Ciò nella sostanza significava che non avrebbe mai contribuito con uno stipendio alla mia istruzione. Perché di quello si trattava, non si può mica chiedere che una scuola ti paghi per studiare… oddio i soldi per i mezzi pubblici quelli erano a carico mio, quindi in sostanza alla fine dei conti ero rosso, sia in viso per il nervoso, sia nella lettera della banca che riportava l’estratto conto.
    Ciò detto, abbandonai il posto per una più remunerativa professione di informatico. Un impiego dignitoso che dalla sua aveva il vantaggio di essere part-time, lasciandomi così molto tempo per i miei svaghi culturali.
    Cominciai allora, con passione, le mie frequentazioni teatrali.
    Mi iscrissi a un corso di scrittura. Qualcosa di particolare che si svolgeva in un teatro e insieme al quale si poteva seguire come uditori alle lezioni di tecnica dell’attore.
    Certo in sei mesi allo studio fotografico avevo avuto modo di imparare molto. L’uso degli obiettivi e la profondità di campo, i tempi di scatto e il rapporto con l’esposizione. E poi i bianchi e gli scuri, la luce artificiale e quella naturale, il calore dell’una la freddezza dell’altra, la composizione dell’immagine e la misura del componimento.
    Tutto ciò non mi aveva preparato a l’avere a disposizione un materiale umano sorprendente. FotinaSì perché in teatro c’erano sguardi che non lasciavano adito a mezze misure. Frecciate dirette allo spettatore da occhi che guizzavano da una parte all’altra, movimenti repentini di un dito che avevano il valore di un malrovescio ben calibrato e parole che cadevano nel vuoto come il silenzio su un manto di neve.
    Ora la cosa era grave perché avrei dovuto scriverne, ma in realtà quello che volevo era rubare quegli istanti in un’immagine su pellicola. Eh sì, perché eravamo oltre cinque anni fa e le macchine fotografiche digitali erano ancora dei giocattolini. Solo allora qualcuno iniziava a usare la Nikon D1 per i servizi fotografici…

    continua…