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Luglio, 2007

  1. Anche Antonioni se ne va… e chi resta?

    Luglio 31, 2007 by Admin

    C’è dell’umorismo macabro nella Morte… intendo il personaggio con la falce de Il settimo sigillo di Bergman. Ieri mattina si prendeva il regista svedese, poi in serata è passata per l’Italia e si è portato via Michelangelo Antonioni. Certo Antonioni aveva 94 anni e negli ultimi vent’anni, in seguito all’ictus, aveva perso il suo smalto. FotinaMa era pur sempre l’artefice di quella poetica detta dell’incomunicabilità che per me ha raggiunto l’apice nel piano sequenza finale di Professione Reporter.
    Non amavo alla follia l’opera di Antonioni. Non era tra gli autori che mi hanno catturato a livello istintivo, non c’era affinità tra me e lui, eppure…
    Eppure ho imparato ad apprezzarlo, ad amare le scene silenziose in cui il suo occhio vagava alla ricerca del senso di ciò che accade: la scomparsa di un affetto, il senso delle relazioni umane, l’idea che abbiamo della nostra vita.
    E poi c’era la fotografia. Le inquadrature di Antonioni erano puntuali, severe per molti versi, ma comunque precise. Ho apprezzato più i suoi film a colori che non quelli in bianco e nero. A cominciare proprio dalla pellicola del ’75 con Jack Nicholson e Maria Schneider. Ma anche Blow Up e Zabrizkie Point lì ho preferito ai vari La notte o L’Avventura. Era come se i colori del mondo mi aiutassero a sopportare meglio quell’incomunicabilità.
    Forse, più semplicemente, dipendeva dal rigore di una fotografia che toglieva tutto l’inessenziale e che per questo diventava claustrofobica.
    Poi a dirla tutta ho amato molto Al di là delle nuvole, ma credo che lì ci fosse una forte impronta di Wim Wenders…
    Comunque, superando tutto, oltrepassando anche l’idea che questo blog si stia trasformando in un prontuario di annunci funebri, Antonioni mi mancherà e penso che per lui valga in parte quanto scrivevo ieri per Bergman…

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  2. E’ morto Bergman… no, no, noooooo!

    Luglio 30, 2007 by Admin

    Interrompo tutto quello che sto per fare per segnalare che è morto Ingmar Bergman. Non ci credo, non voglio crederci, no.
    Sono quelle notizie che non mi aspetto, anche se lui aveva 89 anni.
    Fotina
    La cosa mi pesa tanto e più della morte di Mastroianni, un filo meno di quella di Kubrick. Sento che sta per crollare il mondo. Uno dei miei miti muore e sò che il mondo ha qualcosa di grandioso in meno.
    In questi anni ho dato lentamente credito all’idea che il presente attraversi una fase di decadenza. Ho anche pensato “bene, sono questi in genere i periodi in cui nascono i germogli culturali che danno la spinta verso il futuro”.
    Oggi più che mai vedo quanto la decadenza sia invece un imbruttimento del mondo che ci circonda. FotinaLa scomparsa di Bergman equivale alla scomparsa di una stella nel cielo, equivale al crollo di una delle cime di Lavaredo, alla desertificazione dell’Amazzonia. E’ come se il pianeta perdesse una delle sue bellezze, peggio, è come se venisse meno uno stimolo a migliorarsi, a creare qualcosa che non è, come se il destino dell’umanità si increspasse e rischiasse di essere compromesso per sempre.
    Certo parlo con dolore perché non ci sarà più un nuovo film dell’autore di Sussurri e grida – che per inciso quando vidi, mi tolse talmente il fiato che pensai di non essere più in grado di respirare. Parlo con sofferenza perché Fanny e Alexander mi ha incantato come poche pellicole. Parlo con tristezza perché l’intensità de Il posto delle fragole o de Il settimo sigillo non avranno più modo di essere parte di qualcosa di nuovo.
    Bergman, Ingmar Bergman, parliamo di lui, diamine!
    No, no, noooooo… non ci voglio e posso credere.
    Mi sembra di fare il conto alla rovescia, di avere dei miti e di perderli come le tessere di un mosaico…
    Lo so, è solo un momento di sconforto. In fondo le stelle muoiono, le stelle nascono. Eppure, allo stesso modo di quando seppi della morte di Kubrick, sento che mi hanno strappato qualcosa dentro…

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  3. Fotografia, teatro e danza – 6 –

    Luglio 24, 2007 by Admin

    Prima di parlare del sottile dolore che cominciai a provare in mezzo a quell’esplosione di creatività, devo parlare di Ciro.
    La prima volta che misi piede nella scuola rimasi abbagliato dal luogo e da ciò che prometteva di essere: l’alto soffitto che finiva con un lucernario, Fotinail grande tavolo rotondo al centro del salone, le tovaglie a quadri bianchi e rossi, le candele sui tavolini. I ragazzi che facevano avanti e indietro tra il bar e il teatro, tra l’ufficetto e il bar, e chi invece si rincorreva con un copione in mano. Quella volta misi la testa dentro, ce la lasciai il più a lungo possibile, presi dei volantini e uscii quasi spaventato. Era troppa la sorpresa, troppo tutto insieme, in un unico posto.
    La seconda volta, quella decisiva che mi convinse a iscrivermi, conobbi l’energia negli occhi di una persona che lì era di casa, Ciro.
    E’ strano quanto io debba a quell’uomo e quanto poco sia stato in grado di dargli indietro.
    Il giorno in cui decisi di iscrivermi lo feci dopo aver trascorso un’ora seduto con un’amica a uno di quei tavolini dalle tovaglie a quadri. L’avevo portata con me per mostrarle il posto e aiutarmi a decidere sul mio futuro. Chiacchieravamo amabilmente in un momento in cui dentro la scuola non c’era nessuno o quasi. Ciro era dietro il bancone, si occupava del bar che, come scoprii successivamente, era gestito dai ragazzi che tenevano in piedi la struttura. Lui era uno di questi. Anzi, a dirla tutta, era uno dei punti di riferimento della scuola.
    Io e la mia amica conversavamo con una birra davanti, parlavamo di teatro. Lei recitava dal liceo e aveva concluso da poco un corso di dizione. Io ero quasi digiuno, se non per un’esperienza senza pretese esaurita nel breve arco di pochi mesi.
    Ciro passava con disinvoltura da dietro al bancone ai tavolini. Puliva, metteva a posto, riapparecchiava. Poi a un certo punto prese il giornale, un plico di fogli, e venne a sedersi al tavolo accanto al nostro.
    Sistemò il plico da una parte, guardò i titoli in prima pagina del giornale, lo sfogliò appena e lo ripose accanto a sé sulla panca. Poi riprese in mano i fogli.
    Il suo volto, i suoi occhi, cominciarono a sorridere. Come guardò nella nostra direzione gli vidi una luce. Rideva quasi, aveva un’espressione di gioia e di sorpresa, ma pacata. FotinaMeglio, misurata. Era come se fosse emozionato e stesse degustando quell’emozione.
    Scoperto dal mio sguardo aprì verso di noi uno dei fogli che teneva in mano. Era il disegno di un bambino. Dei tratti infantili riproducevano dei fiori, un prato e una persona al centro.
    “Questo sono io” disse rivolto alla mia amica che si era girata in quel momento, “…o almeno dovrei esserlo”. Rise. Scosse la testa e ci mostrò gli altri fogli. Altri disegni di case, alberi, persone.
    “Sono sorprendenti i bambini…”, riprese e da quel momento ci parlò delle sue due bimbe. Avevano quattro e un anno. Erano belle come la madre, diceva, e testone come il padre.
    Non dimenticherò mai quel colloquio a tre in cui io e la mia amica intervenimmo a bocconi. Ogni tanto, quando terminava un discorso noi gli chiedevamo qualcosa, era solo per farlo continuare, perché non smettesse di parlare.
    “Dove sono ora?”
    “Con la mamma”, rispose e ricominciò con sorprendente vigore a raccontarci di come il giorno prima, la grande, quella di 4 anni, lo avesse aspettato a casa fin quasi alle 11 di sera per fargli vedere i suoi disegni.
    “Dormiva in piedi. La testa cadeva e lei la tirava su ogni volta. Giù – mimava con la mano – e subito su”.
    Era così preso da quella conversazione che fu naturale che venisse a sedersi tra di noi, con i suoi disegni e con le sue mani che si alzavano e si abbassavano e, Fotinain un certo senso, completavano i suoi discorsi. Era come se quello che dicesse non potesse essere raccontato senza i suoi gesti, e alla fine non erano solo le mani a muoversi, ma ogni sua fibra, ogni muscolo del volto e del corpo era coinvolto nell’atto di narrare.
    Ciò che però mi rimase appiccicato addosso, ciò che conservo gelosamente nei miei ricordi, fu l’espressione del suo viso – quegli occhi spalancati – attraverso la quale faceva vedere anche noi. Come se parlando delle sue bimbe le avesse davanti, e noi attraverso di lui le stessimo guardando.
    Oggi con il senno di poi sono sicuro che mi iscrissi a quella scuola grazie a lui. Durante quel breve incontro mi diede il senso del teatro e, inconsciamente, mi fornì un grande insegnamento. Mi fece vedere, chiaro come non mai, quello che stavo cercando come fotografo. Mi mostrò il nocciolo più profondo nascosto nelle persone, quella parte dell’io che si può vedere solo in coloro che fanno con intensità un’attività al punto da “essere” quell’attività.
    Mesi dopo, quando ero ormai onnipresente come fotografo, Ciro mi chiese di entrare a far parte della compagnia teatrale nelle vesti di tecnico luci. Non ricordava più quell’episodio avvenuto il settembre precedente. Io sì, per questo accettai senza esitazione.

    PS
    Poi le ho ritrovate quelle foto…
    Alcune sono su questo post, altre ne vedrete in seguito.
    Purtroppo in nessuna di esse c’è Ciro.

    continua…