In un piccolo saggio sul racconto che leggevo ieri su Bestiario, Julio Cortázar scrive “Un verso mirabile di Pablo Neruda: ‘Le mie creature nascono da un lungo rifiuto’, mi sembra la migliore definizione di un processo in cui scrivere è in qualche modo esorcizzare, rifiutare creature invadenti, proiettandole in una condizione che paradossalmente dà loro esistenza universale…”
Attraverso la citazione da Neruda, Cortázar parla del valore catartico della scrittura, come se scrivere significasse ogni volta buttare via qualcosa. Un racconto, un romanzo, una poesia, qualsiasi testo che giunga a una dignità letteraria non è altri che un cestino, un immondezzaio dove continua a vivere la parte malata che è in noi.
Non è male come punto di partenza per riconsiderare tutte le discussioni sui blog, le fanzine e i vari siti che in Italia si occupano di letteratura.
Proprio oggi leggevo su Lipperatura di una presunta morte della società letteraria intesa “come corpus formato da scrittori, critici, editori”. E’ un discorso come tanti altri che si legge sui vari Nazione Indiana, Vibrisse e Carmilla. Non so perché ma sono stanco delle piccole bagatelle tra intellettuali. Se invece di chiedersi che strada ha preso la letteratura con l’avvento della rete e delle comunità telematiche si spremessero le budella e tirassero fuori un pò di sangue e vita non sarebbe meglio?
Riprendendo Cortázar pensavo a come il contenuto di un’opera non è mai preso a caso tra le pieghe della vita. In genere fa parte del vissuto che l’autore vuole lasciarsi alle spalle, a cui vuole sfuggire. Quell’elemento senza un nome che zavorra l’esistenza e non permette di crescere. In questo senso l’urgenza dell’autore dipende da quanto è angusta la gabbia che lo trattiene, da quanto ridotta è l’aria a sua disposizione. Ecco la vera molla che spinge il processo creativo. Ecco forse perché in Italia si produce molta aria fritta: non c’è vera sofferenza a cui attingere, siamo una società opulenta che aspetta un decadentismo che è ancora solo annunciato e non è – purtroppo o per fortuna – drammaticamente reale.
Continua lo scrittore sudamericano scendendo nel particolare della forma letteraria da lui prediletta, “Forse è esagerato affermare che tutti i racconti brevi pienamente riusciti, e in particolare i racconti fantastici, siano prodotti nevrotici, incubi o allucinazioni neutralizzati mediante l’oggettivazione e il trasferimento a un ambiente esterno rispetto al terreno nevrotico; ad ogni modo, in qualunque racconto breve memorabile si percepisce tale polarizzazione, come se l’autore avesse voluto disfarsi il più presto possibile e nel modo più categorico della propria creatura, esorcizzandola nell’unico modo in cui gli era dato di farlo: scrivendola.”
Scusate il cinico intellettualismo, ma stamattina mi sono svegliato con il torcicollo e la caviglia dolorante… forse dovrei scrivere un racconto sui dolori articolari!