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‘Luoghi’ Category

  1. Fotografia, teatro e danza – 6 –

    Luglio 24, 2007 by Admin

    Prima di parlare del sottile dolore che cominciai a provare in mezzo a quell’esplosione di creatività, devo parlare di Ciro.
    La prima volta che misi piede nella scuola rimasi abbagliato dal luogo e da ciò che prometteva di essere: l’alto soffitto che finiva con un lucernario, Fotinail grande tavolo rotondo al centro del salone, le tovaglie a quadri bianchi e rossi, le candele sui tavolini. I ragazzi che facevano avanti e indietro tra il bar e il teatro, tra l’ufficetto e il bar, e chi invece si rincorreva con un copione in mano. Quella volta misi la testa dentro, ce la lasciai il più a lungo possibile, presi dei volantini e uscii quasi spaventato. Era troppa la sorpresa, troppo tutto insieme, in un unico posto.
    La seconda volta, quella decisiva che mi convinse a iscrivermi, conobbi l’energia negli occhi di una persona che lì era di casa, Ciro.
    E’ strano quanto io debba a quell’uomo e quanto poco sia stato in grado di dargli indietro.
    Il giorno in cui decisi di iscrivermi lo feci dopo aver trascorso un’ora seduto con un’amica a uno di quei tavolini dalle tovaglie a quadri. L’avevo portata con me per mostrarle il posto e aiutarmi a decidere sul mio futuro. Chiacchieravamo amabilmente in un momento in cui dentro la scuola non c’era nessuno o quasi. Ciro era dietro il bancone, si occupava del bar che, come scoprii successivamente, era gestito dai ragazzi che tenevano in piedi la struttura. Lui era uno di questi. Anzi, a dirla tutta, era uno dei punti di riferimento della scuola.
    Io e la mia amica conversavamo con una birra davanti, parlavamo di teatro. Lei recitava dal liceo e aveva concluso da poco un corso di dizione. Io ero quasi digiuno, se non per un’esperienza senza pretese esaurita nel breve arco di pochi mesi.
    Ciro passava con disinvoltura da dietro al bancone ai tavolini. Puliva, metteva a posto, riapparecchiava. Poi a un certo punto prese il giornale, un plico di fogli, e venne a sedersi al tavolo accanto al nostro.
    Sistemò il plico da una parte, guardò i titoli in prima pagina del giornale, lo sfogliò appena e lo ripose accanto a sé sulla panca. Poi riprese in mano i fogli.
    Il suo volto, i suoi occhi, cominciarono a sorridere. Come guardò nella nostra direzione gli vidi una luce. Rideva quasi, aveva un’espressione di gioia e di sorpresa, ma pacata. FotinaMeglio, misurata. Era come se fosse emozionato e stesse degustando quell’emozione.
    Scoperto dal mio sguardo aprì verso di noi uno dei fogli che teneva in mano. Era il disegno di un bambino. Dei tratti infantili riproducevano dei fiori, un prato e una persona al centro.
    “Questo sono io” disse rivolto alla mia amica che si era girata in quel momento, “…o almeno dovrei esserlo”. Rise. Scosse la testa e ci mostrò gli altri fogli. Altri disegni di case, alberi, persone.
    “Sono sorprendenti i bambini…”, riprese e da quel momento ci parlò delle sue due bimbe. Avevano quattro e un anno. Erano belle come la madre, diceva, e testone come il padre.
    Non dimenticherò mai quel colloquio a tre in cui io e la mia amica intervenimmo a bocconi. Ogni tanto, quando terminava un discorso noi gli chiedevamo qualcosa, era solo per farlo continuare, perché non smettesse di parlare.
    “Dove sono ora?”
    “Con la mamma”, rispose e ricominciò con sorprendente vigore a raccontarci di come il giorno prima, la grande, quella di 4 anni, lo avesse aspettato a casa fin quasi alle 11 di sera per fargli vedere i suoi disegni.
    “Dormiva in piedi. La testa cadeva e lei la tirava su ogni volta. Giù – mimava con la mano – e subito su”.
    Era così preso da quella conversazione che fu naturale che venisse a sedersi tra di noi, con i suoi disegni e con le sue mani che si alzavano e si abbassavano e, Fotinain un certo senso, completavano i suoi discorsi. Era come se quello che dicesse non potesse essere raccontato senza i suoi gesti, e alla fine non erano solo le mani a muoversi, ma ogni sua fibra, ogni muscolo del volto e del corpo era coinvolto nell’atto di narrare.
    Ciò che però mi rimase appiccicato addosso, ciò che conservo gelosamente nei miei ricordi, fu l’espressione del suo viso – quegli occhi spalancati – attraverso la quale faceva vedere anche noi. Come se parlando delle sue bimbe le avesse davanti, e noi attraverso di lui le stessimo guardando.
    Oggi con il senno di poi sono sicuro che mi iscrissi a quella scuola grazie a lui. Durante quel breve incontro mi diede il senso del teatro e, inconsciamente, mi fornì un grande insegnamento. Mi fece vedere, chiaro come non mai, quello che stavo cercando come fotografo. Mi mostrò il nocciolo più profondo nascosto nelle persone, quella parte dell’io che si può vedere solo in coloro che fanno con intensità un’attività al punto da “essere” quell’attività.
    Mesi dopo, quando ero ormai onnipresente come fotografo, Ciro mi chiese di entrare a far parte della compagnia teatrale nelle vesti di tecnico luci. Non ricordava più quell’episodio avvenuto il settembre precedente. Io sì, per questo accettai senza esitazione.

    PS
    Poi le ho ritrovate quelle foto…
    Alcune sono su questo post, altre ne vedrete in seguito.
    Purtroppo in nessuna di esse c’è Ciro.

    continua…


  2. Fotografia, teatro e danza – 5 –

    Giugno 27, 2007 by Admin

    Qualche mese fa, quando stavo scrivendo questo breve racconto di ricordi, mi ero arenato perché mi mancavano delle foto. O meglio dovevo andare a recuperare le immagini scattate durante i corsi di danza. Fotina
    Se non per questa che vedete qui accanto, non le ho trovate quelle foto. Non perché non le abbia più, ma perché di mezzo c’è stato, e c’è, un trasloco.
    Non ricordo bene dove ero rimasto. Certo potrei leggere gli ultimi quattro post, ma non sono gli eventi che contano, è più il senso di ciò che volevo dire…
    Immagino – perché ultimamente ne ho parlato con più di una persona – che quello che avessi davvero in mente di raccontare era il perché oggi non faccio più fotografie…

    Riprendiamo da E.
    Avevo iniziato a parlare di lui.
    E., come dicevo, era il coreografo della scuola. Era anche l’insegnante dei corsi di danza. Era ed è tuttora tante cose: brasiliano, gay, estremamente allegro e, come ho avuto modo di apprezzare, una persona gioviale che non scaricava mai la tensione del lavoro in teatro sulle persone che gli erano intorno. Come dicevo ebbi l’ardire di chiedere a lui se potevo presentarmi con l’obiettivo durante i suoi corsi di danza.
    Lui acconsentì.
    Per capire meglio ciò che avvenne faccio un breve quadro.
    Dopo un periodo di qualche mese come assistente per un fotografo di moda, mi trovavo in una scuola di teatro, creative writing e varie altre arti. Frequentavo il corso di scrittura ma mi ero appassionato alle lezioni di tecnica dell’attore. La scuola organizzava anche una serie di incontri con alcuni antropologi, musicologi, persone di cultura a cui assistevo con passione. Mano a mano, avevo chiesto di poter scattare fotografie durante tutte le attività, comprese infine le lezioni di danza…
    Per rompere la poesia di questo idillio, preciso che c’era una retta da pagare, ed era anche abbastanza elevata… per mantenermi, dopo aver lavorato come informatico part-time per qualche tempo, lavoravo ora a tempo pieno come redattore presso una delle prime testate sul web.
    Fatto sta che le ore della mia giornata erano densamente popolate. Il giorno lavoravo, e dalla sera fino alla notte – spesso inoltrata – andavo alla scuola… il tutto girando per la mia odiata-amata città attraverso stancanti spostamenti sui mezzi pubblici.
    Al rientro a casa ero distrutto, mangiavo un boccone e mi infilavo sotto le coperte. Verso la fine di quel periodo mi era venuta la gastrite…
    Beh, immaginatemi con l’acidità che fa su e giù tra lo stomaco e la bocca della gola, immaginatemi con una reflex russa degli anni ’70, completamente manuale, tra le gradinate di un piccolo teatro. La luce è inesistente se non per alcuni faretti che bruciano le superfici che intersecano. Tanto più che le pareti e il palco sono neri e tutto ciò che non è nel cono di luce non esiste. Lavoro con un teleobiettivo e ho l’autorizzazione a fare i miei scatti purché non utilizzi il flash. Il corso di danza è variegato, tutti hanno un minimo di esperienza, ma alcuni sono davvero bravi, altri si vede, si muovono con un pizzico di goffaggine.
    E. gestisce le musiche, mette a rotazione diversi CD in un piccolo stereo appoggiato su una sedia, fa alcune pause tra un brano e l’altro, spiega cosa vuole vedere e i movimenti che si aspetta che i corsisti facciano. Costruisce coreografie, interviene direttamente sul materiale umano in movimento. Il suo lavoro include la gestione delle luci.
    Mi spiego.
    Ha sistemato lui i faretti su una posizione fissa, e crea le sue coreografie spostando i movimenti dei corsisti in modo che intersechino la luce.
    Io sono affascinato da quel lavoro, è simile al lavoro del fotografo per il quale lavoravo, ma ha un livello di complessità in più: c’è di mezzo il movimento.
    Il fotografo posizionava le luci e creava uno sfondo. Il suo professionismo era nel controllo totale della qualità e quantità della luce su un’area abbastanza ristretta. E. lavora su un teatro di posa e il suo professionismo si basa sulla qualità del movimento. Ma non il movimento in generale, no, lui lavora sul movimento percepito. Quello cioè che emerge nel complesso del palco, nelle macchie di luce che lo inondano.
    Usa il buio e la luce come pennelli sul corpo dei danzatori, ma mentre il pittore dipinge su una tela ferma, lui muove la tela su dei pennelli fermi. La tela, per lui, è una coreografia sul palco.
    Mi domando ora, valeva la pena di avere la gastrite per questo?
    O sì, valeva eccome.
    Anche perché questo era solo l’inizio di un percorso di consapevolezza che mi ha portato più avanti a diventare il tecnico luci della scuola…

    continua…


  3. Fotografia, teatro e danza – 4 –

    Marzo 26, 2007 by Admin

    C’è da dire che la luce nella danza è fondamentale.
    O meglio. La luce è lo specifico fotografico, ciò che rende la fotografia un’arte. Essa è importante per qualsiasi tipo di scatto, che sia in estate sotto il sole piatto di mezzogiorno, o in un luogo chiuso illuminato da candele o faretti. Nei vari casi il fotografo ha semplicemente problemi diversi ed esigenze diverse.
    Ora quello che voglio dire è che se nel teatro può accadere che la luce di un faretto bruci il volto dell’attore lasciando tutto il resto al buio, nella danza questo non è accettabile, né per il fotografo, né tanto meno per lo spettatore. La danza si nutre di luce perché alcuni effetti che crea per il suo pubblico si basano su di essa. Nella danza la luce è essenziale perché fa parte della coreografia e aiuta a creare movimento nella scenografia.
    Questo me lo ha insegnato E.
    La sera della Kafka-dance, mentre ero impegnato a dannarmi l’anima per il rullino terminato prematuramente e per l’assenza di pellicole nuove nel borsone, avevo visto E. seguire la danzatrice nel dietro le quinte. La seguiva con la testa e ne anticipandone i gesti. Dietro quella coreografia c’era il suo intervento.
    E. era l’insegnante di danza nonché il coreografo della compagnia teatrale della scuola.
    Ora tornando a me, io non sono estroso, ne tantomeno estroverso. Per diventare “il fotografo” avevo già impiegato una grande dose di quella che si può definire intraprendenza. Con il senno di poi mi risulta difficile credere che feci anche altri passi in avanti, il primo dei quali fu quello di chiedere a E. di poter assistere (e fotografare) le sue lezioni di danza…

    continua…